Il paradosso risolto: rendere il Disaster Recovery l’ostacolo inamovibile

Il disaster recovery è il pilastro che si oppone a forze che sembrano inarrestabili. Ci sono concetti che nel mondo delle imprese dovrebbero essere scontati, e invece finiscono per sembrare eccezioni: la sicurezza, la continuità, la serenità operativa.

“Vivere sereni”, sapere che l’azienda può ripartire qualunque cosa accada, è una condizione che si costruisce con metodo, non un privilegio per pochi.

Molte organizzazioni riscoprono il valore della resilienza solo quando qualcosa si rompe. Un attacco informatico, un blackout, un errore umano: bastano poche ore per mettere alla prova anni di lavoro.

È in quei momenti che la resilienza mostra il suo vero volto: un fattore di sopravvivenza, economica, reputazionale. Ma anche culturale.

Ogni ora di fermo operativo ha un costo. A volte si misura in euro, altre in fiducia. Un sistema che non risponde, un ordine che non parte, un processo che si interrompe: tutto ciò che dipende dall’infrastruttura digitale (praticamente tutto) diventa improvvisamente fragile. A questo si aggiunge il tempo necessario a riprendere il controllo. Ed è lì che la preparazione fa la differenza.

Il Disaster Recovery è una forma mentis che mette al centro la continuità del business e valorizza tecnologia, persone e decisioni. 

Questo perché il Disaster Recovery non è solo un principio tecnico: prende forma concreta nel piano di DR, l’insieme di procedure e decisioni che permettono all’azienda di ripartire.

Non serve solo a rimettere in moto i server: serve a mantenere la lucidità anche nel caos.

Un piano di DR non è il pulsante rosso dei film. È la certezza di sapere, in ogni momento, chi deve agire, con quali strumenti e in che ordine. È un linguaggio comune che permette di reagire con metodo.

I disastri di oggi non arrivano più solo da incendi o allagamenti, ma da eventi invisibili: ransomware, attacchi alla supply chain, compromissioni lente e profonde. Per questo le domande fondamentali restano le più semplici: quanto tempo possiamo permetterci di restare fermi? Quanti dati possiamo perdere senza compromettere la fiducia dei clienti?

Sono domande economiche, non informatiche.

Tu che amministri la tua azienda, sai quanto ti costa un’ora, un giorno, una settimana di fermo?

Investire in un piano di DR completo significa investire nella capacità di restare lucidi quando tutto cambia. Il ritorno non è solo nel tempo risparmiato, ma nella qualità delle decisioni prese durante una crisi.

Chi ha un piano non deve improvvisare: applica ciò che ha già testato. È questa calma operativa che fa la differenza.

Un Disaster Recovery solido si fonda su tre pilastri: prevenzione, isolamento e verifica. La prevenzione riduce la superficie d’attacco: protezione dei punti di ingresso, segmentazione delle reti e copie disconnesse dei dati sono i principi base di un obiettivo che non si raggiunge mai del tutto, ma verso cui bisogna tendere ogni giorno: l’igiene digitale. L’isolamento consente di ripristinare i sistemi in un ambiente controllato: la cosiddetta IRE (Isolated Recovery Environment), un’ambiente sterile dove ricostruire e validare i servizi compromessi, al riparo da qualsiasi rischio di reinfezione. Infine, la verifica: strumenti di Managed Detection & Response (MDR) analizzano i sistemi ripristinati prima del ritorno in rete, per garantire che siano effettivamente puliti e privi di compromissioni residue.

È la differenza tra riaccendere e ripartire.

La resilienza non è una competenza tecnica: è un’abitudine culturale che trasforma la normalità in forza operativa. Sapere di poter affrontare l’imprevisto senza perdere la rotta è la base di ogni organizzazione matura.

Quando i dati sono protetti, le persone addestrate e la gestione consapevole, il rischio non sparisce; ma si può gestire. E governare il rischio è una forma concreta di leadership.

Oggi questa evoluzione verso la gestione consapevole del rischio è anche normativa. La direttiva NIS2, che raccoglie e rafforza la tendenza di tutti i principali framework internazionali di sicurezza e resilienza, traduce in obblighi ciò che per anni è stato solo buon senso. Non riguarda solo gli operatori dei settori critici, ma anche le aziende che collaborano o forniscono servizi a chi opera in quei contesti. La catena della resilienza non si interrompe più ai confini dell’organizzazione: si estende a tutto l’ecosistema. Chi fa parte della filiera digitale deve dimostrare non solo di essere sicuro, ma anche di poter continuare a funzionare, perché dal suo lavoro dipende quello di altre aziende, che a loro volta devono continuare a funzionare.

La continuità, oggi, è una responsabilità manageriale.

Ogni decisione, dalla scelta dei fornitori al modo in cui si gestiscono i dati, incide sulla capacità dell’impresa di restare in piedi.

Ci saranno sempre forze che paiono inarrestabili: attacchi, crisi, eventi imprevedibili. La differenza la fa la presenza di un ostacolo inamovibile, costruito con metodo e visione: il piano di Disaster Recovery.

Non serve a fermare tutto, ma a impedire che l’imprevisto travolga ciò che conta davvero. 

Negli anni '70, nel piccolo villaggio giapponese di Fudai, un amministratore decise di costruire una diga per proteggere la valle dalle inondazioni. Fu completata nel 1984. Per anni fu criticato, a tratti deriso: nessun disastro, solo spese. 
L’11 marzo 2011, lo stesso tsunami che distrusse Fukushima travolse anche la regione dove si trova Fudai. I villaggi vicini furono cancellati.
Solo Fudai restò in piedi. Non per fortuna, ma per preparazione.

Il Disaster Recovery è la nostra diga di Fudai nel mondo digitale. Un’opera silenziosa, spesso sottovalutata, che sembra superflua finché non serve. Ma quando arriva l’onda, è l’unica cosa che conta.

È il punto stabile nel caos, la diga che spegne l’onda. E chi guida un’azienda dovrebbe chiedersi non tanto quanto mi costa la diga, perché ogni protezione ha un costo diverso: ma quanto tempo serve per tornare operativi? I nostri backup sono davvero isolati? Chi decide nelle prime ore di crisi? Quando abbiamo testato l’ultima volta il piano?
Un piano non testato è come il progetto di una casa mai costruita: sembra solido sulla carta, ma quando ti accorgi che è instabile, ormai la stai già costruendo.

La forza di un’azienda si misura nella serenità con cui si prepara all’imprevisto. Ma quella serenità nasce dal metodo, dai processi, dall’attenzione a ciò che serve per poter aprire ogni mattina. Prepararsi quando tutto è calmo non è pessimismo: è rispetto per il proprio futuro.

Vivere sereni, dopotutto, non dovrebbe essere un’eccezione.
Dovrebbe essere la normalità.